Come già detto da altre parti, contemporaneamente all’apertura della
scuola popolare nell’autunno 1968, un gruppo di persone decide di andare ad abitare nello
stesso palazzo dove inizieranno i corsi. Inizialmente sono 4 famiglie che diventano presto 6 per un totale di 17 persone, bambini compresi.
Ogni famiglia dispone di un appartamento in affitto in cui continuare ad avere una propria vita famigliare; al IV piano dello stabile sono stati affittati due appartamenti che, con abbattimenti di muri, hanno permesso di avere degli spazi comuni per mangiare assieme, discutere, accogliere, permettere spazi di gioco per i bambini: in altri termini, ci si è mossi in modo empirico e senza forzature ideologiche tra le esigenze di una linea di vita e d’azione unitaria e le esigenze insopprimibili della libertà individuale.
Gli innegabili aspetti positivi di questo esperimento sono stati:
- L’abitudine di discutere – e di decidere – quotidianamente insieme i problemi vocazionali della propria vita, e in fondo, tutti i problemi.
- La possibilità di avere un grandissimo numero di rapporti esterni: una comunità attira visite, e le può ricevere perché c’è comunque sempre qualcuno in casa.
- Soprattutto la possibilità di costituire il supporto umano e vivente con la scuola popolare, qualificando in modo non burocratico né ideologico il rapporto con gli allievi, ma, anzi stabilendo con loro una rete di rapporti diretti e frequenti, spesso culminanti in vera amicizia.
- Togliere alle donne il peso della gestione di una “casa” e della cura dei figli: la preparazione dei pasti e le pulizie della comune vengono fatte a turno da tutti, donne e uomini, e la cura dei bambini viene suddivisa fra tutti.
Intellettuali e operai: le due colonne della comune
Dopo pochi anni al nucleo iniziale si sono aggiunti alcuni giovani evangelici interessati all’esperienza comunitaria e all’azione socialmente impegnata, e operai di Cinisello la cui presenza ha imposto alla comune un continuo confronto con realtà sociali e religiose differenti.
Infatti, proprio grazie alla presenza di operai, nel 1973 si è posto il problema delle differenti estrazioni sociali tra i componenti il gruppo e che, nel concreto della vita della comune, si riflettevano in una diversa disponibilità di benessere.
Fino ad allora i contributi alle spese del vitto e a quelle generali del funzionamento della comune erano calcolati in proporzione ai consumi delle persone; questo metodo, apparentemente corretto, era profondamente ingiusto perché chi guadagnava meno si trovava a contribuire con percentuali più alte del proprio stipendio. La proposta avanzata e accettata stabiliva che tutti contribuissero in base a una percentuale fissa del loro reddito; questa proposta favoriva ovviamente i redditi più bassi e incideva sensibilmente su quelli più alti. Da allora tutti i membri versavano il 30% del proprio reddito alla cassa comune, che con questo si provvedeva al vitto, alloggio, e spese correnti.
Durante questi anni la comune si è trovata ad affrontare un evento che l’ha impegnata a fondo: l’accoglienza a
rifugiati cileni in fuga dopo il golpe dell’11 settembre 1973. E’ stato un periodo molto faticoso ma anche molto ricco di rapporti umani attraverso i quali si è venuti a contatto con culture, abitudini, aspirazioni, storie nuove, coinvolgenti e tragiche. Più di 200 persone sono transitate in quei locali per periodi più o meno lunghi (anche un anno).
Nel 1978 la comune raggiunge le dimensioni ottimali: 23 persone. Oltre alla scuola popolare i membri della comune si interessano e vengono risucchiati dalla vita della città: c’è chi è eletto presidente del Consiglio di quartiere, chi lavora nel Distretto scolastico, chi è impegnato nella chiesa valdese, chi nel direttivo dell’Arci, ecc. Tutto ciò è giusto, perché un gruppo non deve rinchiudersi nella sua specializzazione: ma paradossalmente, un ulteriore estendersi degli impegni singoli esterni potrebbe condurre a un certo isolamento della comune, se non potesse più essere dotata di sufficiente ‘respiro interno’.
La comune: non un fine ma uno strumento
Negli anni la comune mantiene le sue caratteristiche principali che le permettono di sopravvivere alle crisi che inevitabilmente hanno colpito la maggior parte delle comuni nate allora: un netto rifiuto a darne dei contenuti ideologici che la rendessero fine a se stessa o luogo in cui si risolvono i propri problemi, ma, al contrario, considerarla sempre uno strumento, sia pure importante e interessante nella forma, che permettesse di assolvere dei compiti esterni a sé. La proposta di vivere in comune ha una sua validità e può essere rivolta ad altri.
- Prima di tutto questo modo di vivere permette di dare continuità e spessore all’impegno nella storia e nella società che non sia effimero ma che possa durare negli anni.
- Paradossalmente la comune aumenta le libertà personali di ciascuno e consente di fare tante cose che non sono possibili quando si è assillati dalla vita familiare. Si pensi soltanto al vantaggio di poter fare a turno la spesa, le pulizie, il far da mangiare e gli altri lavori domestici.
- Vale la pena di vivere in una comune perché questa è una struttura organizzativa efficace per le iniziative e le attività che si svolgono insieme: essa vive per le cose che fa e per la gente con cui entra in contatto.
- La vita comunitaria è una proposta valida perché mantiene aperti al confronto, alla contraddizione, alla diversità. Un confronto che spesso avviene più nelle cose semplici e negli atteggiamenti che nelle parole.
Per tutti gli anni ’80 la comune mantiene una consistenza numerica che le permette di essere viva e funzionante, pur negli avvicendamenti delle persone: praticamente a metà anni ’80 tutti i vecchi membri della comune sono stati rimpiazzati da nuovi ingressi.
E’ con la fine degli anni ’80 che il nucleo comunitario comincia ad essere in sofferenza: nel 1988 sono 18 i membri residenti; nel 1989, 11; nel 1990, 10 di cui 4 extracomunitari, la comune inizia ad essere multietnica; nel 1992, 12; nel 1994, 10 di cui solo 2 evangelici.
Ma oltre al numero sempre più esiguo, non si ha più una visione chiara della propria identità e degli obiettivi verso cui lavorare; in più comincia a farsi pesante la situazione economica: molti membri sono giovani, studenti, lavoratori precari, e il vecchio modo di autosostentamento che permetteva di affrontare tutte le spese con il 30% del proprio reddito non basta più.
Nel 1994 la comune chiede aiuto alle istituzioni della chiesa valdese; un atto della Conferenza Distrettuale dà mandato alla Commissione Esecutiva Distrettuale di individuare un percorso che dia alla comune la possibilità di continuare il lavoro del Lombardini ma, in un
incontro del luglio 1995 con la Commissione Esecutiva Distrettuale il gruppo si presenta dimissionario.
Il Lombardini avrà la possibilità di continuare con altre forme alcune attività ancora per 10 anni ma la classica struttura portante del Centro non c’è più.
Finisce così l’esperienza, dopo 26 anni, di questo originale ed efficace modo di impostare e condurre la propria esistenza di singoli, coppie, bambini.